12/09/11

Apologia di una maga barbara, ovvero dell'inesistenza di una sindrome di Medea

  

La sindrome di Medea indica, in psicologia clinica e in criminologia, l'uccisone dei figli da parte della madre, inserita in quadro psicopatologico di stress emotivo e/o di conflitto con il partner. Il riferimento è ovviamente alla figura mitica di Medea, o meglio alla versione che ne scrisse Euripide nel 431 a.C.
La tragedia di Euripide narra infatti l'ultimo episodio delle vicende di Medea e Giasone, cioè il momento in cui la donna viene ripudiata dal marito che ha accettato di sposare Creusa (o Glauce) figlia di Creonte, re di Corinto. A questo punto, la vendetta della moglie tradita si scatena: decide di uccidere non solo l'avversaria in amore, ma anche i figli avuti da Giasone. L'infanticidio, che tanto orrore suscitava negli antichi così come nei contemporanei, è però una variante euripidea rispetto al mito originale, perchè in tutta la tradizione precedente non se ne fa mai menzione.
Esiodo e Pindaro ci descrivono una maga esperta, nipote di Circe e del dio Sole, figlia del re della Colchide Eeta (fratello di Circe), dunque una diversa per i Greci, un'estranea alla loro civiltà, una barbara, in ragione delle sue origini. Entrambi collegano Medea alla spedizione degli Argonauti e sottolineano il suo intervento decisivo nella conquista del vello d'oro che avrebbe assicurato a Giasone il potere regale. Avendo tradito la sua patria per amore, Medea fugge con Giasone e non si fa scrupolo dell'uccisione del fratello Absirto. Ma quando la coppia approda a Corinto, Giasone decide di ripudiarla per sposare la figlia del re Creonte. Scatta allora il desiderio di vendetta contro i responsabili della sua rovina: ella è rimasta sola, è una straniera in una terra ostile e non può far ritorno nella patria che ha tradito per un amore che si è rivelato a sua volta traditore.
Come mai non c'è traccia nella tradizione pre-euripidea di un episodio così terribile, deinòs avrebbero detto i Greci, il figlicidio, appunto, che ha poi reso così celebre il mito di Medea  fino alla sua trasformazione in una sindrome patologica?
La spiegazione ci viene da Pausania (Periegesi della Grecia) e da uno scoliasta, un commentatore antico, al verso 287 dell'opera di Euripide: incrociando i dati, veniamo a conoscenza del fatto che furono i Corinti ad uccidere i bambini per rappresaglia contro la barbara che aveva ammazzato  Creusa e il padre corso in aiuto. Medea era scappata a rifugiarsi presso il tempio di Era con i suoi figli sperando invano di salvarli, perchè la legge vietava di profanare la sacralità dei templi con il sangue di un assassinio. Tale empietà aveva avuto ripercussioni nefaste sugli abitanti di Corinto, città che era sorta su un istmo e dunque viveva di commercio. Gran parte dei popoli della Grecia, infatti, si rifiutava di commerciare con una città su cui gravava una turpe leggenda di sacrilegio. Ragion per cui i Corinti pagarono Euripide perchè, attraverso una tragedia, addossasse la colpa dell'infanticidio sulla madre, la straniera, la diversa, la barbara.
Del resto, Euripide non era estraneo a questo tipo di operazioni. Anche in seguito, nel 412 a. C, accettò di riscrivere sotto compenso il mito di Elena, affermando che non era stata la donna ad abbandonare Sparta  per andare a Troia con Paride e dunque a causare la famigerata guerra, ma un suo fantasma. Anche in questo caso dobbiamo chiedere una spiegazione alla storia: Elena era venerata come un'eroina a Sparta che in quegli anni era in guerra con Atene da circa un ventennio. La guerra del Peloponneso fiaccava gli ateniesi che, rivalutando e celebrando la protettrice di Sparta, cercarono, inutilmente, un riavvicinamento all'antica e odiata rivale. L' Elena non ebbe lo stesso successo della Medea non solo per il minor spessore letterario, ma anche per un minor impatto nell'immaginario collettivo. Oltretutto, il mito di Elena e il suo collegamento con la guerra di Troia era così ben strutturato nella civiltà  greca che non fu possibile cancellarlo con un colpo di spugna. Esperimento che invece colse nel segno con la tragedia dedicata a Medea, che riuscì a oscurare tutte le versioni a essa precedenti, consacrando alla storia una madre assassina dei propri figli. Alla versione di Euripide si è poi ispirato, tra gli altri, Seneca, che ha reso questa eroina tragica l'emblema del contrasto tra furor e bona mens, tra razionalità e follia.
Con Freud si è infine consolidato quel processo, nato in seno a una cultura, quella greca, patriarcale e misogina, che ha fatto di Medea il simbolo della tendenza materna a distruggere il rapporto fra padri e figli a seguito di una separazione conflittuale. Ma Freud non conosceva il greco e ignorava la complessità e la vastità del patrimonio mitico ellenico. Se non poteva accedere all'originale del testo  euripideo, figuriamoci cosa potesse sapere delle versioni anteriori.
Evidentemente sono altrettanto digiuni di lingua e cultura greca coloro che, ad oggi, continuano a individuare in Medea l'esempio di un comportamento deviante delle madri e invocano una sindrome di alienazione genitoriale, anche nota come PAS, di cui,  a detta dei padri, sarebbero responsabili unicamente le genitrici. Insomma, complesso di Medea e sindrome di alienazione genitoriale sembrerebbero interessare solo le donne, portatrici di un furor, come direbbe Seneca, da cui l'uomo non si lascerebbe travolgere fino all'azione delittuosa.
Ciò che, a mio avviso, può dimostrarci il mito in questione, non è certamente l'esistenza di una sindrome che colpirebbe le donne, ma da cui sarebbero immuni gli uomini, soprattutto se l'esistenza di tale sindrome è fondata sulla riscrittura di un mito ad opera di un solo autore, una semplice variante, quindi, che si è imposta sulla tradizione, eclissando le precedenti, non certo per una fondatezza psico-patologica, ma per ragioni di natura letteraria e socio-culturali.
La storia di  questo mito è tutt'al più esemplificativa di una costante delle società misogine di fare della donna il capro espiatorio. Così Euripide, trasferendo sulla donna la colpa dell'infanticidio, ha fatto di lei il pharmacòs, il capro espiatorio, per l'appunto, l'elemento purificatore del male, in quel caso rappresentato dalla cattiva fama di sacrilegio che affliggeva Corinto.
Analogamente, affermare l'esistenza di una sindrome di Medea significa in primis escludere che il figlicidio venga compiuto anche dagli uomini e sappiamo tutt* che non è così, anche se la cronaca non insiste nel riferirci i casi raccapriccianti di segno maschile e la psicologia non si è ancora sforzata di costruire un quadro clinico ad hoc. In secondo luogo, appellarsi al mito a mo' di archetipo equivale a non tener conto di tutti quegli elementi di natura sociale, economica, culturale che concorrono a determinare la storia di una persona e le reazioni, anche patologiche, alla realtà che vive.
Invece di scomodare il mito, che il più delle volte nemmeno si conosce, ma di cui si è solo sentito dire, sarebbe più opportuno e scientificamente corretto indagare quali sono le cause che hanno portato, ad esempio, all'aumento esponenziale delle depressioni post-partum, depressioni che, ignorate e/o sottovalutate, non di rado sconfinano in manifestazioni patologiche, quali infanticidio e  suicidio. E soprattutto non si dimentichi, o non si faccia finta di non sapere, che, pur volendoci attenere alla Medea di Euripide, questa non agisce per un raptus di follia muliebre inspiegabile, ma per vendetta, perchè dal suo uomo ha ricevuto un torto gravissimo, al quale non può rimediare. Lo apprendiamo dallo stesso tragediografo:
io sono sola, senza patria, e il mio sposo
mi fa oltraggio, lui che me rapiva
da una barbara terra; e non ho madre,

non fratello o parente, a cui possa
rivolgere l'approdo in questa mia sciagura.
(Eur. Med. vv. 254-58)
Quale sarebbe stata una risposta decorosa e sana, accettare la decisione del marito e abbandonare esule i figli, senza batter ciglio? Perchè non chiamare in causa, allora come oggi, anche i comportamenti maschili? Questi ultimi continuano a non essere messi in discussione, così come si continua a non tener conto della solitudine, dell' oltraggio che ancora oggi opprimono molte donne, la cui condizione non è poi tanto dissimile da quella espressa nel 431 aC da Euripide per bocca della sua eroina:
Di tutte le creature cha hanno vita e intelligenza,
noi donne siam di tutte le piú misere.
Ché, innanzitutto, con con enorme quantità di ricchezze
dobbiam comprarci uno sposo e accoglierlo
- male anche peggiore dell'altro - signore

del nostro corpo. E il rischio grande è questo:
se sarà tristo o buono: ché separarsene
non reca onore alle consorti, né

si può ripudiare lo sposo. E, giunta
quindi a nuovi costumi, a nuove leggi,
dovrebbe essere indovina: ché non ha appreso
in casa come possa piacere
allo sposo. E quando, a gran fatica,
vi siamo giunte, se lo sposo vive
di buon grado con noi, se non sopporta
il giogo a forza, invidïata vita
la nostra! Ma se no, meglio è morire.
Quando in casa si cruccia, un uomo può
uscire e presso un coetaneo,
presso un amico, cercar tregua al tedio:
noi, di necessità, sempre allo stesso
uomo dobbiamo essere intente. Dicono
che passiamo in casa, e scevra dai pericoli,

la nostra vita, e invece essi combattono;
ed hanno torto: ch'io lo scudo in guerra
vorrei imbracciare prima tre volte,
che partorire anche una sola
.
(Eu. Med. vv 230-50)
Anche ad Euripide, nel V secolo avanti Cristo, non sfuggivano tali asimmetrie. I contemporanei, piegando a proprio uso e consumo il mito alle contingenze del presente, vogliono forse ignorarle per continuare nel solco di una civiltà patriarcale e misogina?

Si ringrazia per la foto: G. L. Carnera, Archivo INDA. Maddalena Crippa e Gianluigi Fogacci nella Medea diretta da Peter Stein, 2004.

2 commenti:

  1. Un piacere leggere questa riscrittura.. Traspare tutta la tua passione per la mitologia greca.
    Ciao, Cinzia

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  2. Ciao Antonella! Caruccio assai, grazie. Caterina

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