08/10/11

Alle donne d'Africa il Nobel per la pace

Quando, più di una anno fa, era partita la campagna noppaw, non avevo riposto troppe speranze nella possibilità che il Nobel per la pace 2011 potesse essere assegnato alle umili donne africane. Nel 2010, il comitato di Oslo non aveva ritenuto opportuno assegnarlo alle abuelas de plaza de Mayo, anche se, nel 2009, era sembrato cosa buona e giusta farne dono a Obama, il presidente neo-eletto di uno degli Stati più guerrafondai al mondo, un paese dove, nella classifica dei settori industriali più produttivi, l'industria delle armi è al primo posto.
Non che io tenga molto in considerazione il premio Nobel, però mi ero impegnata a diffondere la petizione online per la raccolta di firme, perchè ritenevo e ritengo che, considerato l'impatto mediatico, questo Nobel per la pace avrebbe potuto avere una ricaduta positiva non solo per l'Africa, ma per tutte le donne, anche quelle occidentali che con le sorelle africane condividono una peculiare attitutdine al multitasking. Mi sarebbe piaciuto un premio corale, che non contemplasse nomi particolari in rilievo e che nella sua coralità esprimesse la collettività delle donne, africane e non, che si riconoscono l'una l'altra al di là del colore della pelle. Invece il Nobel è andato a tre nomi ben precisi: alla presidente liberiana Ellen Johnson Sirleaf, alla connazionale Leymah Gbowee, che ha mobilitato le donne contro la guerra civile nel Paese, e all’attivista per i diritti delle donne yemenite e per la democrazia Tawakkol Karman, per la loro lotta non violenta in favore della sicurezza delle donne e del loro diritto a partecipare al processo di pace.
E' un bel segnale, ma non basta. Il comitato promotore, infatti, aveva candidato tutte le donne africane come riconoscimento del lavoro che esse svolgono non solo nella sfera politica tradizionalmente intesa, ma anche in quella sociale ed economica. Sono le donne, infatti, che reggono la fragile economia dei paesi di quel continente in via di sviluppo, perchè si occupano di quell'economia, per così dire informale, che permette alla vita di riprodursi ed andare avanti anche in situazioni di pericolo e di emergenza. Simbolo della campagna è stata infatti la sagoma di una figura femminile che cammina, va avanti, portando in testa un carico, che potrebbe essere un secchio d'acqua, una fascina di legna, un cesto di frutta, un carico qualsiasi, che trasfigura nell'immagine dell'intero continente. Come non pensare alle operaie morte a Barletta il 3 ottobre, che lavoravano 12 ore al giorno, in nero, per meno di 4 euro all'ora? Anche le operaie di Barletta, quasi tutte ragazze madri e una con marito disoccupato a carico, in quello scantinato malsano che è crollato loro addosso esprimevano la forza di andare avanti, in situazioni di pericolo e di emergenza, nonostante tutto. Proprio come le donne africane.
Il premio Nobel sarebbe dovuto andare a questa resilienza che è una caratteristica di noi donne e che non si esprime solo nella conquista delle prime pagine dei giornali, ma anche e soprattutto nell'anonimato della vita quotidiana. E' sulla resilienza delle donne che si fonda il microcredito del banchiere dei poveri, Muhammad Yunus, altro Nobel per la pace, ma guarda caso non per l'economia, nel 2006. Yunus, inventore del microcredito, aveva capito che i prestiti andavano concessi alle donne, perchè solo queste, soprattutto se madri, avrebbero garantito la restituzione del denaro e l'avvio delle attività a cui il prestito era stato finalizzato.
Forse, nell'individuare tre destinatarie del Nobel, che si sono distinte nel fare politica, si è persa un'opportunità: quella di riconoscere merito e valore al lavoro che le donne di qualsiasi continente svolgono all'interno delle mura domestiche, nella dimensione del privato e non solo del politico. Forse, ma spero che non sia così, si è persa un'opportunità di cominciare a ricucire, anche attraverso il Nobel, lo strappo, tipico del patriarcato, tra privato e politico, tra personale e politico, come se fossero termini antitetici di un binomio che, invece, non dovrebbe avere più ragione di esistere.
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