3/12/2009
καὶ μιν φωνήσας έπεα πτερόεντα προσήυδα
e a lei parlando parole alate rivolse
Omero, Iliade
- Ragazzi, che succede? Non vola una mosca, mi guardate tutti senza fiatare. Mi sto sentendo a disagio, è successo qualcosa?
- Niente, Professore’, non è successo niente. E’ un piacere ascoltarla. Continui a parlare, non si fermi, continui a raccontare la storia di Orlando.
- Siete sicuri? Sicuro che va tutto bene?
- Sì, va tutto bene. E’ che nessuno ci ha mai fatto una lezione così seria. Non si è mai sentito prima.
Seduti nei loro banchi disposti a ferro di cavallo, i miei alunni mi puntano gli occhi addosso con degli sguardi affilati come spilli che mi fermano alla parete dietro alle mie spalle. Ragazzi, si fa per dire, perché gli allievi appartengono ad una classe molto speciale: la terza a dell’istituto d’arte annesso ad una casa di reclusione di massima sicurezza, sezione penale. Gennaro, Giovanni, Ercole, Antonio, Mario e gli altri che io chiamo “ragazzi” sono uomini adulti, detenuti AS, alta sicurezza, condannati all’ergastolo ostativo per reati connessi alla criminalità organizzata. Molti hanno scontato dieci, quindici anni di pena in regime 41-bis.
E’ passato circa un mese da quando ho ottenuto l’incarico di insegnare italiano in un supercarcere, un po’ per curiosità e un po’ per sfida. Avevo tanto desiderato questo incarico, ma non appena ho iniziato questa esperienza, sono stata travolta da mille interrogativi: insegnare in carcere. Perché? Cosa? Come?
Ciò che mi destabilizza maggiormente è un senso di estraneità ad una istituzione totale come il carcere, mi sento come un animale che si muove in maniera circospetta in un territorio che non gli appartiene e che è abitato da un branco che non è il proprio. Un groviglio viscerale di umori, sensazioni ostili, percezioni alterate mi assale ogni volta che metto piede qui dentro e mi lascia addosso un senso di stordimento da cui tento di liberarmi a fatica anche quando ne sono fuori. L’articolo 27 della Costituzione italiana afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Ma che senso può avere insegnare letteratura italiana a persone condannate con sentenza definitiva all’ergastolo? Quale rieducazione ci può essere in questi casi? A che scopo?
- Professore’, che si è imbambolata? Riprenda a raccontare – una voce mi richiama dalla palude delle perplessità nella quale mi capita spesso di rimanere impelagata anche mentre faccio lezione.
Un po’ imbarazzata, abbasso la testa sul foglio che ho preparato e fotocopiato per tutti e ricomincio a leggere il proemio dell’ Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, mentre tutti ascoltano la mia voce in religioso silenzio.
Dirò d’Orlando in un medesmo tratto/cosa non detta in prosa mai né in rima/che per amor venne in furore e matto/ d’uom che sì saggio era stimato prima.
Alzo leggermente gli occhi, come per seguire con lo sguardo l’eco della mia voce che si diffonde. La porta è socchiusa e, stranamente, anche nel corridoio c’è un silenzio assoluto.
L’alto valore e i chiari gesti suoi/vi farò udir, se voi mi date orecchio/e vostri alti pensier cedino un poco/sì che tra lor miei versi abbian loco.
I versi dell’ Ariosto prendono corpo attraverso la mia voce, si staccano dalla pagina e si diffondono nello spazio, escono dalla porta socchiusa, attraversano le sbarre, scendono come un balsamo sugli animi disillusi che popolano questo luogo appesantito dalla tristezza, dalla rabbia, dal dolore.
La chiusa del proemio è straordinaria. Quando faccio la parafrasi, le mie parole e i versi del Poeta diventano una cosa sola, acquistano il medesimo significato: se voi mi prestate attenzione, io vi farò ascoltare il grande valore e le sue famose imprese, e fate in modo che le vostre preoccupazioni diminuiscano un po’, per lasciar spazio ai miei versi. Chi sta parlando a chi? Ludovico Ariosto a Ippolito d’Este o io ai detenuti?
In fondo, che importa? In un posto come il carcere, dove le coordinate spazio-temporali sono azzerate, dove la logica e la ragione sono messe continuamente sotto scacco dalle emozioni più elementari, l’unica cosa che conta è l’effetto immediato di un gesto, di una parola.
La mia voce, morbida e squillante, sta invitando ad ascoltare le imprese dei paladini di Carlo Magno contro i Mori, perché ascoltando si dimenticheranno per un po’ le preoccupazioni e si riuscirà ad evadere, se non dal carcere, per lo meno dagli alti pensieri.
La mia voce riesce a chetarli, li vedo, sono tranquilli. Ogni tanto qualcuno interviene, Giovanni fa confusione tra epos e proemio e mi chiede di spiegare meglio, Ercole mi domanda la differenza tra i saraceni e i musulmani e perché si dice mamma li turchi! Finalmente il discorso non cade più, come spesso accade, su rapine, ergastoli, suicidi, mafia. Le parole alate, έπεα πτερόεντα, come le definisce Omero, volano nell’aria e si fanno spazio tra i pensieri confusi e contorti dei detenuti, dis-traendoli, ovvero traendoli via da una quotidianità di tristezza e sofferenza.
Così, dopo le iniziali schermaglie dovute a reciproche diffidenze, mi sono improvvisamente ritrovata a parlare dell’ Orlando Innamorato e del Furioso. Dopo circa un mese di avvicinamento, fatto di annusate reciproche, qualche ammutinamento e noiosi esercizi di grammatica, ho intuito che la classe voleva un’altra prova di forza. Non mi hanno detto niente, ma io ho captato gli umori nell’aria. Sì, va bene l’accento e l’h, il verbo e la congiunzione, ma adesso andiamo al sodo, facci vedere quello che sai. Anche perché, fatto per loro disdicevole, io non ho il libro di testo e non ho dimostrato la benché minima intenzione di procurarmelo.
- Il libro non è fondamentale – ho più volte sottolineato, fino a quando Giovanni, che è stato eletto moderatore della classe, mi ha ripresa
- E no, questo lei non lo deve dire! Non sta bene, da una Professoressa. Una Professoressa senza libro non si è mai vista
- Ho detto che non è fondamentale, è sicuramente importante, ma non fondamentale.
Il suo sguardo bieco mi ha fatto capire che non era più il momento di perdersi in chiacchiere
- Allora stamattina riprendiamo il programma di letteratura da dove ci siamo interrotti la prima volta che sono venuta…e che non mi avete voluto ascoltare…
Altro sguardo bieco. Adesso non mi spaventano più come all’inizio, adesso li so decifrare, più o meno. Così riparto dal punto in cui lo svolgimento del programma era stato interrotto l’anno scorso, ossia dall’Umanesimo e dal Rinascimento, riallacciandomi al Medioevo per marcare la differenza con l’epoca precedente e sottolineare le caratteristiche della nuova era, cosiddetta della “Rinascenza”. Quando tocco l’argomento “poemi cavallereschi” l’attenzione sale notevolmente, allora decido che è meglio insistere
- …pensiamo ai poemi del ciclo carolingio, la Chanson de Roland, per esempio….
- L’abbiamo fatto l’anno scorso – interviene il moderatore
- No, non lo abbiamo fatto – lo contraddicono
- Eh sì che l’abbiamo fatto, non vi ricordate? Orlando, Carlo Magno, i paladini di re Artù
- Re Artù fa parte del ciclo bretone, non di quello carolingio – tengo a precisare
- Ma che è? La capa rindra o basilico? – chiede Antonio
- No, la capa rindra o basilico è la novella di Lisabetta da Messina. Boccaccio, il Decamerone- tengo a precisare un’altra volta e qui li lascio a bocca aperta.
- Subito ha capito la Professoressa , da due parole e pure in dialetto!
Quello che apprezzo di questa gente è che, essendo abituata ad obbedire a un capo, a essere inserita in una rigida gerarchia, quando si rende conto di avere davanti una figura autorevole, la rispetta incondizionatamente. Coloro che provengono dalle file della criminalità organizzata hanno bisogno di continue prove di forza, di dimostrazioni concrete del valore di chi gli sta davanti, ma quando le hanno, le riconoscono e non le mettono in discussione. Se dimostri concretamente di essere ferrato in ciò che ti compete, loro riconoscono in te un leader e ti seguono, senza fare storie, anzi, dimostrando l’ ammirazione e il rispetto che si devono a chi rappresenta l’autorità.
- La Chanson de Roland racconta l’epico scontro tra Cristiani e Saraceni e si conclude con la vittoria della fede cristiana su quella pagana, rappresentata dai nemici musulmani. – riprendo il discorso, per rimettere ordine – Questa vicenda continua a essere narrata nel Rinascimento e viene mescolata con le storie dei cavalieri di re Artù. Un esempio è l’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo, rimasto incompiuto e poi ripreso da Ludovico Ariosto. Il Boiardo, però, inserisce una novità: l’amore di Orlando per Angelica, che però gli sfugge
- Orlando e Rinaldo amano Angelica, ma lei non li vuole e scappa, scappa e attraversa tanti paesi lontani…è questa la storia, Professore’ ?– Ercole mi interrompe, sporgendosi dal banco
- Sì, è questa la storia – gli rispondo
- I pupi, i pupi, noi in Sicilia ci abbiamo i pupi. Li conosce?-incalza con entusiasmo
- Sì, ho un pupo saraceno che ho comprato a Messina tanti anni fa, ma non ho mai avuto la fortuna di vedere uno spettacolo
- Quelli di Messina nun valgono nende. I pupi più belli sono di Palermo – interviene Gennaro
- Ma che vai dicenno? Sono più belli quelli di Catania – qualcuno contesta
- Ce lo abbiamo anche noi nella nostra cultura napoletana – Antonio non vuole essere da meno
- O Sarracino, o Sarracino, bbeelllooo guaglioooooo’!!! – intona – O Sarracino, o Sarracino, tutte ̀e ffemmene fa nnammurà ! – la conosce Professore’, vero?
La discussione si sta riscaldando un po’ troppo e sta sfociando in aperto campanilismo; ognuno alza la voce per affermare che i pupi della sua città sono i più belli e i migliori in assoluto. Fortuna che, in questi casi, prima che la situazione degeneri, interviene Giovanni il moderatore
- Professoressa, se ha il computer ci scriva Vidirchio che internet le spiega tutto
- Ma quale internette e internette, alla Professoressa ce lo spiego io! – questa volta Ercole è rapito dal fervore, vuole la parola e urlando se la prende
- Quando ero bambino, la domenica mattina mio padre sempre mi portava a vedere gli spettacoli dei pupi. Arrivavano nella piazza di Catania e si mettevano con i carretti, aprivano e c’era il teatrino e cominciavano a raccontare la storia di Orlando e Angelica, che lui era innamorato e lei non lo voleva e scappava, scappava. Tutti noi bambini stavamo intorno ai teatrini, e quelli che erano più bravi c’avevano più pubblico, e tutti ad applaudire, a gridare, eeehhh, eeehhh, vai, vai, Orlando vai…!!!
Lo osservo mentre racconta, non lo voglio assolutamente interrompere. E’ andato in trance, si rivolge a me, ma la sua mente è altrove, davanti agli occhi vacui probabilmente scorrono le immagini della sua infanzia, di un Ercole bambino con il padre che lo accompagna a vedere gli spettacoli, di una fase ancora innocente della sua vita, quando nemmeno presagiva le Erinni o la malasorte che lo stavano aspettando al varco per accompagnarlo all’inferno in cui si ritrova adesso.
Le imprese di Orlando, l’amore per Angelica, gli ideali eroici del poema epico cavalleresco aprono uno squarcio tra le mura grigie del carcere e proiettano gli animi induriti di questa gente in una dimensione irreale, in cui il presente è annullato da una capacità immaginifica assopita che, come per magia, si risveglia. Scorrono davanti agli occhi i paladini che affrontano mille avventure, attraversano valli e foreste, scampano dai sortilegi dei maghi, combattono a cavallo per difendere l’onore, sfidando la morte e vincendola, perché, dopo più di cinquecento anni, le loro imprese sono ancora vive tra noi.
La magia della letteratura, della poesia, dell’arte in generale, la sua capacità di emozionare.
Mi ci è voluto un supercarcere per trovare una risposta alla domanda idiota che spesso mi sono sentita ripetere: “ Ma a che serve la letteratura?”. A niente, la letteratura non serve a niente, perché non si sposa con il verbo servire. La letteratura, in quanto espressione artistica, non serve, non ha niente a che vedere con il servire, la servitù, il servizio e il servile, ma, esattamente al contrario, è legata al concetto di evasione e, dunque, di libertà. L’arte non è fatta per chi si accontenta dell’utile, ossia di ciò che serve a risolvere le bassezze del contingente e non potrà mai essere avvicinata da chi è preso dalla materialità che delimita il suo piccolo orizzonte quotidiano. L’arte è per gli spiriti liberi, perché è evasione dalla quotidianità, è affermazione del potere di spaziare con la mente, di spingersi con l’immaginazione oltre i ristretti orizzonti a cui siamo costretti dalla necessità basilare della sopravvivenza, dalle nostre più elementari esigenze, quelle fisiche. L’arte è espressione dello spirito, della capacità creativa che avvicina l’uomo al Grande Demiurgo, come nella Creazione di Adamo di Michelangelo.
Quando leggevo, da bambina, e divoravo uno dopo l’altro i romanzi di Natalia Ginzburg di cui ora non ricordo niente, non mi ponevo il problema della loro utilità. Mi piaceva leggere e questo era un motivo più che sufficiente per passare da Carlo Cassola a Renata Viganò, da Gavino Ledda a Grazia Deledda o per addormentarmi, la sera, con “il Grande Libro della Storia” in braccio, sfinita dalle imprese di un Muzio Scevola o di una Clelia. Mi catapultavo indietro nei secoli, nei millenni, ora tra gli Egizi, ora tra i Fenici, ora tra gli Ebrei, attraverso le immagini del mio librone illustrato navigavo nell’arca di Noè, entravo nelle piramidi di Giza, passeggiavo nei giardini pensili di Babilonia, salivo sull’Olimpo tra gli dei; ogni sera era un viaggio diverso, ero libera di andare dove mi piaceva, rapita dall’incanto dei miti e delle leggende.
A che è servito? In realtà, anche se a muovermi non è stato l’utile, ma il dilettevole, un beneficio c’è stato, eccome. Tutte le mie letture hanno fatto di me una persona libera, non solo perché capace di evadere dal quotidiano, ma anche perché capace di dare una direzione al suo movimento, senza lasciarsi trasportare dal variare delle correnti, come gli ignavi di Dante, costretti a girare all’impazzata dietro una banderuola che cambia continuamente verso.
Perché si ascolta della buona musica e si paga il biglietto per un concerto dei Radiohead quando lo si può scaricare gratis da internet? Perché si fanno chilometri e chilometri per vedere un quadro di Van Gogh o quattro pietre in rovina a Micene o per sedersi sulle panche colorate di Parc Güell a Barcellona, quando ci sono delle belle panche grigie di cemento ai giardinetti sotto casa? Forse perchè serve? No, perché piace, emoziona, punto e basta. E’ ora di concedersi un attimo di respiro dalla morsa delle necessità, molto spesso indotte, e dalla spada di Damocle di una utilità a tutti i costi, che tarpa le ali al pensiero, impedendogli di elevarsi.
A che serve portare l’Ariosto in galera, leggere un capolavoro del nostro Rinascimento a detenuti che non distinguono la “e” congiunzione dal verbo, che fine a poco tempo fa a mala pena sapevano firmare, che hanno più dimestichezza con l’esplosivo C-4 che con la penna? A niente, non serve assolutamente a niente e qui si chiude la questione, se “ciò che serve” è l’unico motivo per cui si ritiene che valga la pena vivere. Ma non tutti siamo disposti a soccombere, schiacciati dal peso dei nostri servizi all’imperativo categorico del dovere, non tutti ci rassegniamo a rimanere incatenati a quegli stessi obblighi ai quali spesso finiamo per sottrarci in maniera ipocrita e subdola.
La letteratura è una possibilità di evasione, una delle risorse in cui confidare per salvarci dalle brutture, dalla meschinità e dalla violenza che spesso questo mondo ci riserva. L’arte è un nutrimento per l’anima e tutti ne abbiamo bisogno. Anche i detenuti.
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