02/08/11

Nel branco

29/10/2009
   Homo sum: humani nihil a me alienum puto
   Publio Terenzio Afro

Questa mattina, finalmente, sono uscita dal carcere sorridente e con la testa leggera, senza il consueto stordimento che comincia a placarsi solo dopo un’ora, quando riprendo le mie lezioni al liceo e rimetto necessariamente in moto il cervello, spronata dai miei alunni “di fuori”.


Questa mattina sono uscita dal carcere più che a piedi nudi, con le ali ai piedi, non per la fretta di volare via, ma per la levità  del mio incedere. Il motivo? Il branco mi ha inclusa, sono parte di loro, adesso, e con una posizione di privilegio: in virtù del mio ruolo di Professoressa, sono il, anzi la, capo-branco.

In verità, lo avevo già percepito la volta precedente, quando il secondino aveva aperto la porta all’improvviso per annunciare il cambio dell’ora e si era fermato un attimo, lanciando uno sguardo perplesso. In quell’istante di perplessità sulla soglia si è concretizzata la distanza fra un fuori e un dentro, fra un lui e un noi, fra un gruppo e un estraneo. E io, ormai, ero  il dentro, il noi, il gruppo.

Sensazioni difficili da spiegare proprio perché tali e soprattutto perché nascono in un contesto che non ha eguali e che, pertanto, non ha termini di confronto a cui riferirsi per istituire un paragone che renda meglio un’idea già di per sé tanto vaga.

L’idea  è il prodotto di un’astrazione e in carcere non c’è posto per le astrazioni, per lo più temute e bandite, perché sinonimo di pregiudizio, di paranoia, di desideri  frustranti e frustrati. In carcere più che ciò che si pensa conta ciò che si sente, conta la pelle, perché spesso ciò che si pensa non è spiegabile a parole da chi non possiede non dico gli strumenti della retorica, ma nemmeno i rudimenti di una espressione sufficientemente fluida. Le parole, spesso fraintese, si confondono con i sofismi, con i raggiri, con le menzogne, le parole sono usate  dai giudici per pronunciare i loro verdetti. Come potrebbero piacere?

La pelle, invece, non inganna. Ci appartiene, ci mette in comunicazione con il mondo esterno, è la cerniera tra il nostro universo interiore e tutto ciò che sta fuori, da cui, nello stesso tempo, ci protegge. Le reazioni della pelle sono immediate, precedono qualsiasi astrazione mentale. Come potrebbe ingannarci?

Non tutti possediamo una buona capacità dialettica, ma tutti abbiamo una pelle, animali inclusi. E’ questa il veicolo primordiale di comunicazione, non la parola.

La società occidentale, fidandosi ciecamente del potere del logos, ha soffocato la primigenia  capacità di lasciarsi guidare dai sensi, condannandosi ad un ipertrofia cerebrale  che ha come ultimo risultato l’incapacità di cogliere dimensioni altre rispetto a quelle governate dalla ragione, che comunque continuano a esistere e che, pertanto, rimangono incomprensibili. L’ipertrofia cerebrale comporta, quale rovescio della medaglia, l’atrofia emotiva, la difficoltà ad istituire con l’altro una empatia che ci permetta di comunicare a prescindere dalla lingua madre, dall’estrazione sociale, dal titolo di studio di ciascuno di noi. Il risultato è un senso di scissione interiore, spesso destinata a essere rimossa, e un progressivo allontanarsi da quella dimensione umana alla quale tutti, in quanto esseri umani, per l’appunto apparteniamo. In parole povere, in molti abbiamo smarrito la nostra essenza.

Inseriti nelle dinamiche di una società organizzata da un sistema di pensiero dualistico, oserei dire manicheo, dove il vissuto è ricondotto quasi esclusivamente alle categorie di bene-male, giusto-sbagliato, bello-brutto, rimaniamo poi inebetiti di fronte alla complessità, disorientati di fronte a tutto ciò che non si lascia incastrare nei tasselli di una scacchiera in bianco e nero.

L’unica reazione possibile diventa, a questo punto, la paura, perché ciò che non si conosce e che non si comprende spaventa e  spinge a trincerarsi dietro barriere sempre più difficili da abbattere. Le nostre sbarre, il nostro carcere.

Come sono diventata  capo di un branco in apparenza così diverso da me? Lasciandomi annusare, deponendo le armi del logos, arretrando di fronte alla sua potenza e, di conseguenza,  rinunciando ad avvalermi di qualsiasi categoria di giudizio. Inerme, a mani e piedi nudi, mi sono lasciata fiutare perché sentissero che c’è qualcosa che ci accomuna e ci avvicina, un qualcosa non di poco conto, ma un nucleo fondamentale in cui ritrovarci: la nostra umanità.

 Oggi Gerry sembra un’altra persona. Veramente irriconoscibile. Appena entrato in classe, mi ha stretto la mano per salutarmi e mi ha dato la sua presentazione, scritta su un foglio protocollo, in bella copia e con una grafia curata. Sapevo che l’avrebbe fatto, non ne avevo il benché minimo dubbio, però manifesto meraviglia, soddisfazione. Fa parte delle regole del gioco.

-          Allora mi hai portato la tua presentazione! Grazie.

-          Si, mi hanno costretto i compagni – scherza, quasi vergognandosi di essersi comportato da bravo scolaretto.

-          Eh sì, Professore’, lo abbiamo preso sottobraccio e lo abbiamo portato a fare un giro fuori. Ci abbiamo fatto un discorsetto!- interviene Giovanni.

Entra Gennaro e anche lui, impacciato, mi allunga il suo compito.

-          Ecco Professore’,  la presentazione. L’ho fatta pure io.

Gennaro e Gerry, quelli che mi avevano opposto maggiore resistenza, in ritardo mi hanno portato la loro presentazione. Evidentemente, il gruppo mi ha studiata un po’, ha discusso e ha deliberato di accettarmi o, quantomeno, di lasciarmi muovere per il momento nel suo territorio.

Mentre  appoggio il foglio di Gennaro sulla cattedra, gli occhi mi cadono per puro caso sulla frase conclusiva, scritta in obliquo e sottolineata. Rimango pietrificata, a parte la solita stretta alla bocca dello stomaco, ma mi sforzo di  ignorare ciò che ho letto, di raccogliere le forze e di cominciare la lezione.

 Quando si pensa a una realtà come una casa di reclusione di massima sicurezza è inevitabile che si formulino delle idee in proposito, ovvero dei pregiudizi, cioè, semplicemente, dei giudizi che precedono l’esperienza diretta. Oltre tutto, io ero stata anche informata a riguardo da una collega:

-          Sappi che, se proprio insisti per andare a lavorare in carcere, il posto c’è, ma è alla sezione penale. Lì non troverai ladri di galline, ma delinquenza vera,  imputati per reati di mafia.

Quindi, non miserabili alla Jean Valjean di Victor Hugo, ma uomini d’onore del calibro di un don Vito  Corleone.

La cosiddetta delinquenza “vera”, ossia la criminalità organizzata, ha sicuramente una sua grandezza, che probabilmente risiede proprio nel vivere e perpetuare il crimine inteso come sistema organizzato, e non solo come atto impulsivo dettato dalla disperazione o dalla follia. La mafia ha una  statura di fronte alla quale ci si pone non solo con terrore, ma anche con un certo senso di inadeguatezza, dato che chiunque potrebbe quanto meno concepire di  rubare un tozzo di pane per fame, ma non tutti si sentono adeguati a sciogliere cadaveri nell’acido. Si tratta di quella grandezza che i Greci chiamavano deinòs, ossia che impressiona come straordinaria nel suo genere.

Quindi, fatte queste premesse, mi aspettavo di trovarmi a interagire con una delinquenza in linea di massima straordinaria nel suo genere, in qualche modo “forte”, impavida, perché avvezza a vivere il crimine come sistema strutturato, normativo a tal punto da sostituirsi alla legge di Stato.

E invece, i termini che sento più spesso risuonare sulla bocca dei miei alunni sono timore, paura, giudizio, spesso associati o combinati tra loro.

Questa mattina abbiamo provato a riprendere in mano la famigerata analisi del testo del racconto di Isaac Asimov, Razza di deficienti, che era rimasta incompiuta a causa dell’ammutinamento della classe. Alla domanda:

 “Che tipo di sentimento ti suscita la figura di Naron?”

        a) Imbarazzo; b) timore; c) rispetto; d) simpatia.

Alcuni hanno risposto a) imbarazzo, altri b) timore.

-          Giovanni, perché Naron ti suscita timore?- chiedo.

-          Perché lui decide chi deve far parte della federazione galattica e chi no. Lui giudica chi è adatto e chi no. E non ci vuoi avere timore?

Eccola, la paura del giudizio e della successiva condanna, che forse non atterrisce soltanto Giovanni e suoi compagni, ma che troppo spesso accompagna anche quelli che vivono nel mondo civile, di fuori, come ha scritto Gerry nel suo tema.

Quello che però sfugge a Giovanni è che l’extraterrestre Naron non decide chi escludere dalla federazione galattica in maniera arbitraria, senza una ragione, ma sulla base dei meriti dimostrati dai singoli pianeti. Per cui, se i terresti vengono etichettati come una razza di deficienti ed esclusi dalla federazione non è per una ragione imperscrutabile o per una semplice antipatia, ma perché fanno esperimenti nucleari sul loro pianeta e sono quindi destinati comunque a soccombere per la loro responsabilità o irresponsabilità che dir si voglia.

Non meno perplessa mi ha lasciata un’affermazione di Antonio.

-          La Professoressa vuole  conoscere il nostro “quoziente intelletto”

-          Antonio, ma che dici? Io non voglio e non posso conoscere il vostro quoziente intellettivo, non sono mica una psicologa!

Vorrei tranquillizzarlo ulteriormente, spiegandogli che dal 1906, anno in cui Alfred Binet elaborò i primi test del QI, ad oggi, l’ efficacia della psicometria nell’estimare la complessa funzione psichica dell’intelligenza è stata decisamente ridimensionata, soprattutto perché si è capito che un test psicometrico non misura l’intelligenza, ma l’abilità dell’individuo nel rispondere al test medesimo.  Più che misurare il QI, o “quoziente intelletto” come lo chiama lui, a me interessa vedere come scrivono, quali errori fanno, per capire dove mettere le mani per iniziare un lavoro che abbia un minimo di senso. Nel linguaggio della didattica, o meglio, nel didattichese, parlerei di verifica dei prerequisiti, un accertamento a cui ogni anno sottopongo tutte le classi che non conosco.

Vorrei spiegarmi e spiegare meglio, ma le incomprensioni e i fraintendimenti reciproci a volte sono tanti e tali che non riesco a parare tutti i colpi contemporaneamente, anche perché spesso alcune osservazioni sono per me disarmanti, mi trovano ancora troppo impreparata.

Quando leggo dalla  penna di Gennaro, vacci piano con me a farmi studiare, perchè io sono troppo delicato, mi verrebbe da rispondergli:

- Troppo delicato tu?!? Ma se a momenti mi sbranavi la prima volta che mi hai visto e non hai esitato a puntualizzare:

- A me mi devi lasciare perdere, non ti conviene metterti contro di me, meglio che lo capisci subito.

Ovviamente, in casi come questi, rimango zitta e continuo ad osservare.

Gennaro, come Giovanni, è nato e cresciuto al quartiere Zen di Palermo. Entrambi, mi dicono, grazie alla scuola che hanno incominciato a frequentare  in carcere, stanno acquisendo una maggiore consapevolezza di sé, stanno cominciando a porsi e a porre delle domande, stanno imparando a darsi e a dare delle risposte e, quando si sentono minacciati, a difendersi con la forza delle parole.

-          Professore’, è che uno le cose le capisce dopo, quando cresce, con l’esperienza – Giovanni mi vuole raccontare un episodio della sua infanzia – Quando facevo le elementari, allo Zen,  avevo un maestro tanto bravo. E come era severo!!  Noi non lo potevamo vedere per quant’era severo. Un giorno l’ hanno ammazzato e tutti noi bambini in classe a festeggiare “Evviva, evviva, l’hanno ammazzato!!! E mo’ non viene più ’sto scassacazzi, l’hanno ammazzato!!!”

-          Se l’hanno ammazzato tanto bravo non era – obietta  qualcuno.

-          E no, non volevano ammazzare lui, ma solo un carabiniere. Stava in macchina con il carabiniere e c’è andato di mezzo pure lui

Io sono senza parole e con gli occhi di fuori, a dir poco allibita. Gennaro se ne accorge e interviene.

-          E mo’ l’hai fatta spaventare alla Professoressa, ma che gli vai a raccontare.

-          Si è spaventata Professore’? E no, che a lei non l’ammazziamo, ci sta simpatica. Era solo per farle capire che io, da bambino, non sono stato in grado di apprezzare la severità del maestro e anzi, ho festeggiato quando l’hanno ammazzato. Adesso, invece, mi rendo conto che  avrei potuto imparare tante cose da lui. Però non la volevo spaventare, che c’ha paura mo’?

-          No, no, non ho paura, di cosa dovrei avere paura?

In effetti, non sono impallidita per la paura che mi possano fare qualcosa, ma per la nonchalance con cui mi vengono raccontati i festeggiamenti dei bambini alla morte del maestro, come se si fosse trattato di un accidente qualsiasi, dello stesso valore di un trasferimento. Sulla morte del carabiniere, non viene spesa neanche una parola. Del resto, volevano ammazzare “solo” un carabiniere.

Che importanza si può dare alla vita e alla morte quando si cresce in un ambiente dove la brutalità viene trangugiata dal biberon con il latte? Come possono nascere delle questioni sulla morale, sull’ etica, in un contesto in cui la legge della giungla è l’unica conosciuta ed è pertanto vissuta come necessaria, imprescindibile?

Mi aspettavo di incontrare dei professionisti del crimine, freddi, impassibili, spietati e invece ho di fronte delle persone che portano addosso  i segni indelebili del caos in cui sono cresciuti, della paura che non smetteranno mai di provare, della violenza che hanno subito e perpetrato.

Un po’ per ingenuità, un po’ per ignoranza, non mi sarei mai aspettata che quei supposti professionisti del crimine si sarebbero potuti sentire in soggezione di fronte a me, una giovane insegnante, per di più precaria. Anzi, mi sentivo a mia volta intimorita.

L’esperienza diretta mi sta imponendo una riconsiderazione profonda di molte mie convinzioni, del mio modo di affrontare una situazione nuova e sconosciuta, di relazionarmi con un altro-da- me così diverso e distante. Non pensavo che si potesse fronteggiare un avversario che si ritiene temibile togliendosi la corazza e porgendogli  amichevolmente la mano, andandogli incontro senza attaccarlo.

Non ho nessuna intenzione né di condannare, né di assolvere nessuno. Non mi interessa il lavoro di giudice, né quello di psicologo, ma il mio, quello che so fare, l’ insegnante.

E’ pur vero, però, che questa mattina non ho potuto evitare che una morsa mi stringesse lo stomaco e  mi  pietrificasse quando, per caso e di sfuggita,  a conclusione del compito che mi ha consegnato Gennaro ho letto, ben evidenziato con tanto di sottolineatura, io non sono italiano, sono siciliano. Abbi pietà di me e della mia ignoranza.

Nessun commento:

Posta un commento