22/10/2009
colore: verde come l’erba
Questa mattina ho deciso di presentarmi “a piedi nudi”. Ovvero, di non armarmi di nessuna idea, di nessuna impalcatura, di nessuna strategia, ma di entrare in aula come se fossi senza calze e senza scarpe .
Mi piace molto camminare scalza, mi piace sentire il contatto dei piedi con l’erba, con la sabbia, con la terra, con il pavimento. Il contatto diretto mi dà una sensibilità e una stabilità maggiori, oltre a un piacevole sensazione di libertà. Ovviamente, i piedi nudi non vanno bene per tutte le occasioni: quando la sabbia brucia, metto le ciabatte, quando il terreno è ghiacciato, le scarpe da trekking con tanto di calzettoni di lana. Sono le circostanze del caso, le contingenze, che orientano le scelte o, almeno, così dovrebbe essere.
Per cui, decido di cominciare a disfarmi di quelle strategie troppo scolastiche che potrebbero essere una barriera controproducente tra me e l’altro, tra me e questa realtà così diversa da quella a cui sono abituata. Però, devo ricordarmi che, se per una ragione o per un’ altra i piedi cominceranno a farmi male, dovrò proteggerli immediatamente: ciabatte, scarpe, doposci, questo saranno le circostanze a suggerirlo.
Fuori pioviggina, il cielo è chiuso e grigio, proprio come la cella di un carcere. Va bene, mi metto il vestitino patchwork che ho comprato a 23 euro alla bancarella dei cinesi e ci abbino un bel paio di calze in stile punk, colori fucsia-blu-verde. Dio mio, quanto abbiamo bisogno di colore!
- Professore’, questo qua è un altro della classe, che l’altra volta non ci stava.
Alzo gli occhi dal registro e scorgo due facce nuove che parlano una lingua che non comprendo. Uno dei due si gira.
- Sono io, sono Gerry, sono albanese.
- E tu?
- Io sono kosovaro.
- Si, va bene, volevo solo sapere se anche tu sei di questa classe o di un’altra.
- Si, ma io le ho detto che sono kosovaro perché gli italiani sono razzisti.
- Non io, però – rispondo tra il secco e l’imbarazzato. Mi sento sempre molto a disagio quando sento tacciare di razzismo e di xenofobia la mia terra, questa terra che ha dato i natali a Virgilio, che è stata la culla dell’Umanesimo e che ora respinge in mare barconi di profughi, affogando se stessa in un oceano di barbarie.
- In che lingua state parlando, albanese?
- Si – risponde Gerry – però io sono albanese del sud, di Albania e lui albanese del Nord, del Kosovo. Abbiamo avuto la guerra, Milošević, si ricorda? Ci avete bombardato anche voi italiani, ancora vi ringraziamo per questo - mi getta un’occhiata di sfida che vuole farmi sentire tutto il suo sarcasmo.
- E con la NATO – aggiungo accondiscendente anche se non mi tornano i conti – adesso però per favore vieni a sederti, cominciamo.
Gerry annuisce e si viene a sedere in prima fila, ma spostato completamente a sinistra, attaccato al muro, da solo.
Questa volta subodoro la curiosità di sapere cosa ne penso degli stranieri, qualche battuta provocatoria svolazza nell’aria tra il serio e il faceto.
- Perché sì, noi italiani siamo razzisti, n’è vero Professore’?
- Gli extracomunitari devono stare a casa loro, n’è vero Professore’?
- Mi dispiace per voi, ma io non sono razzista e non penso che gli extracomunitari debbano stare a casa loro. O meglio, se ci devono stare gli extracomunitari, lo stesso deve valere anche per gli italiani. Del resto, cosa significa extracomunitario?
- Che non fa parte della comunità europea.
- Ecco, appunto. Quindi, perché gli diamo un valore dispregiativo? Allora anche gli statunitensi o i giapponesi sono extracomunitari, però…
- E infatti pure loro si devono stare a casa loro – qualcuno mi interrompe.
- Però le migrazioni ci sono sempre state, l’uomo si è sempre spostato, è dalla notte dei tempi che succede - una voce interviene in mio aiuto.
Drizzo le orecchie e prendo la palla al balzo.
- Infatti, le migrazioni dei popoli non sono un fatto di oggi. L’uomo è nato nomade, non sedentario, e i flussi migratori sono un fenomeno del tutto naturale che nessuna legge può impedire, fortunatamente. Dico fortunatamente perché le migrazioni sono un’occasione di incontro fondamentale per la crescita umana e culturale di un popolo, anche di quello che ospita. Una comunità che rifiuta l’altro, che si chiude su se stessa, implode…cioè – mi aiuto con i gesti – un’implosione è il contrario di un’ esplosione, significa che una comunità chiusa si ripiega su se stessa e rischia di morire.
Ma ormai è troppo tardi, ho fatto troppo la Professoressa e l’attenzione già comincia a scemare. Meglio darci un taglio, buttiamola sul pratico.
- Allora avete portato il volume b del libro di testo? Ci leggiamo un bel racconto, poi vi fate l’analisi del testo per conto vostro e la correggiamo la prossima volta.
Facce turbate. Rigidità. Interviene Antonio, con il suo savoir fair da galantuomo napoletano
- Professore’, state scherzannu? E prima ce la facciamo insieme questa analisi del testo, no?
- Si, certo, se preferite, forse hai ragione, è meglio – correggo immediatamente il tiro.
Scelgo un raccontino di Isaac Asimov, dal titolo Razza di deficienti, sul tema del nucleare. La razza di deficienti sarebbe quella umana osservata dal punto di vista degli extraterresti, sconcertati dal fatto che gi uomini facciano esperimenti nucleari sul proprio pianeta. L’osservazione degli extraterrestri arriva come una stoccata alla fine del racconto.
- Però bello come finisce – commenta Gerry – razza di deficienti siamo proprio noi, che ci facciamo gli esperimenti nucleari sul nostro stesso pianeta.
Dopo un istante, quasi si pente. Ha voglia di provocarmi, di mettermi alla prova o forse solo di rompermi le palle. Quindi, dopo aver verificato che sono d’accordo con lui, Gerry comincia a elogiare la forza della scienza che deve andare avanti nonostante tutto, anche se ci porterà all’autodistruzione. Perché fare degli errori è legittimo, anzi, doveroso, solo così si impara. E la scienza non può fermarsi, mai! il progresso tecnologico deve andare avanti, il nucleare serve, è indispensabile…si guarda intorno, ma non trova consensi. Probabilmente, lo conoscono e lasciano cadere il discorso. Io cerco di riprendere in mano la situazione.
- Allora, facciamo l’analisi del testo?
Di nuovo, rigidità.
- Guardate che sono le domande nella pagina successiva. a) Chi è il protagonista del racconto?
- Naron , un extra-terrestre – rispondono in coro.
- b) Qual è il compito di Naron?
- Aveva il compito di scrivere su un libro se gli abitanti di un pianeta erano degni di far parte della federazione galattica – altra risposta pronta.
Qualcuno però si distrae.
- Ma che è sta ’nalisi del testo
- E questa è! ’A stammo facennu.
Allora intervengo per richiamare l’attenzione.
- Giovanni, la stiamo facendo, l’analisi del testo. E’ questa che stiamo facendo, sono solo le domande sul racconto, se non ti senti sicuro della tua risposta, ti riguardi il racconto e poi rispondi. Lo vedete che non è difficile? E’ una sciocchezza.
Ma Gerry proprio non ci sta. Mi deve rompere le palle, eh sì! Ci si è messo proprio di punta.
- Guarda Professore’ che noi non c’abbiamo tutto ’sto tempo per fare i compiti e le cose che ci dici tu. Noi qui dentro dobbiamo pure lavorare, lavarci i panni, prepararci da mangiare, c’abbiamo le nostre cose, mica possiamo stare tutto il giorno a fare i compiti.
- E la mattina a scuola, poi pranzi, ti prendi un caffé, ritorni a scuola, ti lavi i panni…e il tempo è finito, vola – interviene Giovanni a rinforzo, ma con meno convinzione. Quindi riattacca Gerry.
- Qui non è come pensate tutti voi, che non c’abbiamo niente da fare e allora possiamo stare a fare tutto quello che ci dicono, perché tanto in galera non si fa niente, e che c’hanno da fare tutto il tempo e tanto non fanno niente….
- Io però non ho detto questo. Non l’ho mai detto, non mi risulta, o sbaglio? – intervengo brusca a fermarlo.
- No, non l’hai detto – si blocca sorpreso un attimo – però la gente lo pensa. E invece io c’ho da fare le mie cose, mica c’ho la filippina!
- Veramente nemmeno io ho la filippina, anch’io devo lavorare, fare la spesa, cucinare, lavare i panni e tutto il resto, ma questo non mi impedisce di fare anche altro. Neanche io ho la filippina, anche per me le cose sono meno facili di quello che credi – l’ho zittito, ma solo per un istante, incalza di nuovo, tanto mi vuole rompere le palle.
- A noi le altre professoresse non c’hanno mai fatto fare ’ste cose che dici tu. Loro ci spiegano qualcosa, ci fanno scrivere un tema, facciamo le discussioni.
- E con questo? Cosa vuol dire questo? Vorrà dire che farete anche qualcosa di diverso, che non avete mai fatto, dov’è il problema?
- Si, ma ’ste cose non sono per noi, a noi ci piace fare le discussioni…e poi le altre professoresse ci portavano le fotocopie.
Guardo il suo banco. Un block notes chiuso e messo di traverso, non vedo la penna e, soprattutto, mi rendo conto che Gerry non ha il libro di testo.
Allargo la prospettiva al resto della classe. Io sono in piedi, davanti alla cattedra e, seduti di fronte a me, come schierati dai banchi di una giuria, tutti assistono alla scena ammutoliti e mi fissano, mi scrutano in silenzio. Sono io l’imputato e loro i giudici. All’improvviso, ho paura, sento una morsa al petto e una alla bocca dello stomaco, mi gira la testa. Un brivido animalesco, primordiale. Mi stanno annusando, proprio come fanno i cani in branco quando chiudono in cerchio l’estraneo, si avvicinano piano piano, lo annusano, gli girano intorno, gli mostrano i denti e gli ringhiano, provocano le sue reazioni per decidere se attaccarlo o meno, se includerlo o meno. Difendono il loro territorio, le loro gerarchie, sottomettono l’estraneo al loro codice.
Mi viene in mente il mio cane, che quando è circondato da un gruppo di cani che fanno branco e che si avvicinano per conoscerlo, rimane fermo al centro, con tutti i muscoli tesi, drizza il pelo sulla groppa e continua freneticamente a scodinzolare, cercando di simulare un’espressione tranquilla, sicuramente amichevole.
Siamo chiusi in questa stanzetta con le sbarre alle finestre, io e loro, ciascuno difendendo il proprio spazio vitale. Siamo degli animali in gabbia e non c’è differenza tra me e loro, perché, al di là dei ruoli, ci muove lo stesso, identico istinto primordiale di autodifesa. Loro hanno paura che io abbia paura di loro e che per questo li giudichi e li condanni, io ho paura che loro abbiano paura che io li giudichi e che per questo, condannino me. Un turbinio di emozioni viscerali, non dette e non riconducibili alla razionalità, al logos con il quale sono abituata a filtrare tutto ciò di cui faccio esperienza. Mi trasmettono a pelle i loro umori e a pelle vogliono sentire i miei. Non glie ne frega un cazzo delle parole.
Devo sedermi, non posso disperdere ulteriormente le mie forze, rischio di crollare. Mi aggrappo disperatamente al logos, l’unico, almeno per il momento, che riesce a darmi sicurezza. Ma il mio tono è pacato, ho posato le armi a terra, davanti a me, e faccio un passo indietro, perché vedano che sono volutamente inerme.
- Ragazzi (!), non dovete pensare che io non mi sia posta il problema di come entrare in contatto con voi. Io qui ci sono venuta di mia spontanea volontà, non mi ci ha mandato nessuno, ho chiesto io di insegnare al carcere.
- E questo ti fa onore – Gerry è sorpreso.
- La professoressa ci è rimasta male perché non vogliamo fare l’analisi del testo. E facimmela sta ’nalisi del testo – Antonio, da galantuomo, vuole stemperare la tensione, ma io non la voglio lasciar passare come se non fosse successo niente.
- No, Antonio, non ci sono rimasta male per questo. E’ che, veramente, io ho pensato alla differenza tra insegnare a dei ragazzi di scuola superiore e insegnare a voi. I ragazzi della scuola superiore “di fuori” hanno, chi più, chi meno, una prospettiva davanti, la scuola potrà servire loro per la vita, per il futuro. Io su questo riesco a fare leva. Per voi è diverso, lo posso immaginare.
- No, tu non lo puoi immaginare – questa volta, però, Gerry non mi guarda in faccia, ha abbassato lo sguardo.
- Ovvio che non lo posso capire, ma mi sforzo di immaginarlo, almeno ci provo
- Ma davvero hai chiesto tu di venire qui a lavorare?
- Sì, Gerry, davvero, l’ho chiesto io. Avrei potuto scegliere di fare queste ore al Liceo classico di Gubbio dove già lavoro, o al Liceo pedagogico, o al linguistico di Spoleto, ma non ci sono voluta andare. Prima ho chiesto di insegnare italiano agli immigrati, ma non mi è stato concesso. Avrei voluto insegnare italiano alle donne musulmane, che spesso non possono andare a scuola perché la religione proibisce la promiscuità e quindi vivono in Italia senza saper parlare l’italiano. L’avrei fatto anche gratis, ma per quest’anno non è stato possibile.
- Tu fai volontariato, quindi – qualcuno mi chiede dal fondo dell’aula.
- No, qui io non sto facendo volontariato, sono pagata, io sto lavorando. E siccome io amo il mio lavoro, voglio farlo con voi con lo stesso piacere con cui lo faccio con gli altri, con i ragazzi che stanno fuori. Capisco che la situazione è diversa, che per voi non c’è l’aspettativa del futuro, ma ciò non toglie che queste due ore alla settimana le possiamo passare con piacere. Ci leggiamo un racconto, ne discutiamo insieme, scriviamo qualcosa…
- Ehh!!! –
Seduto di fronte a me c’è Franco, quello che ha fatto il carcere a Lanciano nell’86. Non ha detto una parola da quando è incominciata la lezione. L’ho visto entrare in aula prestissimo, il primo, con gli occhiali già inforcati, mentre ero nella pseudo-sala dei professori a chiedere informazioni sui moduli da compilare per introdurre in carcere del materiale a uso scolastico. Poi, quando sono entrata in classe e mi sono avvicinata al termosifone elettrico per accenderlo, Franco mi ha detto:
– L’ho acceso io prima, così è già caldo
Ora quel suo Ehh!! è suonato come un rinforzo alle mie parole e si è sentito forte. Nel frattempo, Giovanni ha tirato fuori un thermos e sta versando caffé per tutti in dei bicchierini di plastica, io mi sono rialzata in piedi, appoggiata davanti alla cattedra, come mio solito, e, sorseggiando il mio caffé, mi rivolgo di nuovo a Gerry.
- Del resto, che alternativa hai? Non è meglio per tutti passare queste due ore piacevolmente, magari anche imparando qualcosa? Lascia perdere se ti servirà o meno, chissenefrega, vivi il momento presente, hai quello, vivilo meglio che puoi. Se il problema è che non hai il libro di testo, si risolve, non ce l’ho nemmeno io e comunque faccio lezione, se ne può fare a meno.
- Sono solo dettagli – mi dice.
- Infatti, sono solo dettagli che si sistemano.
- Professore’, abbiamo portato i compiti che ci ha dato l’altra volta. La nostra presentazione.
Di nuovo, interviene Antonio. I discorsi troppo profondi proprio non gli piacciono.
- Sì, però non le chiedere troppo ’ste presentazioni, che dopo se ti raccontiamo quello che abbiamo fatto, ti viene l’ansia.
Oddio, adesso ci si deve mettere pure Gennaro, che è appena arrivato e non sa cosa si è perso
- Prenda la mia e la legga – insiste Antonio.
- No, leggila tu.
- Perché non la vuole leggere?
- Perché l’hai scritta tu, leggila tu – non gli posso dire che mi mancano le forze, ora.
Antonio comincia a leggere nel suo simpatico accento napoletano. Preferisco che legga lui anche perchè a me piace tanto ascoltare il napoletano e il siciliano, insieme al calabrese sono i miei dialetti preferiti. Però, quello che ha scritto non è la sua presentazione, ma la mia, ed è tutta infarcita di complimenti.
- Ma questa non è la tua presentazione, è la mia. Stai descrivendo me.
- E vabbuo’, mi sono sentito di scrivere questo e questo ho scritto.
- Si, per questa volta va bene, perché non metterò il voto, ma voglio solo vedere come scrivete. Però non potete scrivere quello che vi passa per la testa, a prescindere dal titolo
All’improvviso, si apre la porta. E’ il secondino che ci fa notare che sono le dieci, c’è il cambio dell’ora. Lo guardiamo stupiti e lui guarda stupito noi, si ferma una attimo ad osservare, poi mi guarda e mi sorride.
- Sono già le dieci? Non me ne sono resa conto, il tempo è volato.
- Ehh!?! – mi ripete Franco con un sorriso, mentre si alza.
- Va bene, allora ci vediamo giovedì prossimo – li saluto mentre si alzano.
- Allora Professore’, te la porto la prossima volta la mia presentazione, va bene? – mi chiede Gerry, ancora seduto nel suo angolo, mentre sto per uscire.
Io non dico una parola, annuisco seria e lo guardo dritto negli occhi. Ho pensato, mentre gli facevo solo un cenno con la testa, Fa’ come ti senti.
E lui mi ha capito, lo so.
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