12/10/2009
colore: arancione come il tramonto
- Pronto, Manuela?
- Ciao Antonella, come stai?
- Ah, mi hai riconosciuta?
- Si, certo, ho il tuo numero memorizzato sul cellulare.
Il fatto che Manuela mi abbia riconosciuto già prima di rispondere al telefono, mi ha fatto sentire sollevata. Evidentemente immagina perché l’abbia chiamata, non devo fare tanti preamboli. Del resto, l’avevo avvisata: “Sicuramente avrò bisogno del tuo aiuto. Ti chiamo”.
A giugno, fine anno scolastico, mentre prendevo un caffé e fumavo una sigaretta al bar, avevo letto sul quotidiano locale una bellissima lettera che alcuni detenuti avevano indirizzato a una loro professoressa per ringraziarla del suo lavoro e per dichiararle pubblicamente tutta la loro stima. Poiché la professoressa in questione era una precaria, gli alunni, non essendo sicuri di poterla riavere tra loro l’anno successivo, la salutavano calorosamente e le auguravano il meglio per la sua vita e la sua carriera.
Quella lettera mi aveva commosso e al tempo stesso mi aveva fatto sentire fiera del mio lavoro, cosa che mi accade assai di rado e certamente non per le prodezze altrui. Forse, la comune precarietà lavorativa mi aveva in qualche modo avvicinata a quella persona che non conoscevo e che, stando alle parole dei suoi alunni, doveva amare l’insegnamento tanto quanto me. E, nauseata dall’accanimento dei mass media che non esitano a definire la mia categoria professionale una massa amorfa di fannulloni, pedofili e sfigati di varia natura, per una volta mi ero sentita confortata dal constatare l’esistenza (o forse la resistenza) di qualcuno che, a dispetto di uno stipendio da fame e della minaccia continua della disoccupazione, ancora conserva inalterati la propria allegria, il proprio entusiasmo, la propria professionalità.
Quest’anno, per una serie di casualità forse neanche troppo casuali, quella classe di allievi devoti è anche la mia e la condivido con la professoressa tanto amata, Manuela. Ci siamo divise di comune accordo uno spezzone di quattro ore: io insegno italiano, lei storia.
Il primo impatto con la realtà del carcere è stato per me decisamente forte, per questo ho chiamato Manuela. Non per chiederle delucidazioni sui livelli di partenza della classe e sulla programmazione. Riguardo a obiettivi, contenuti, verifiche, valutazioni e libri di testo mi sento più che ferrata, sono i binari sui quali procedo spedita come un treno ad alta velocità, senza chiedere mai niente a nessuno.
Ma questa mattina, già prima che l’ultimo cancello si chiudesse alle mie spalle, ho avuto la sensazione che quei binari ampiamente collaudati questa volta non mi avrebbero portata da nessuna parte. E Manuela me ne ha dato conferma.
Sulla porta di una pseudo-sala dei professori c’è scritto SCUOLA, di fronte c’è la mia classe, la terza C. Sul corridoio avverto un po’ di confusione, occhi curiosi e sorridenti che mi scrutano e mi salutano, buongiorno. Ma io, che tra l’altro non ho neanche ritirato il registro personale in segreteria, non distinguo fra detenuti e personale di servizio. Entro in un’ aula con le sbarre blu alle finestre, stretta, buia, fredda e semideserta. Dal registro di classe risultano 18 alunni, ma sono solo in due o tre che escono ed entrano freneticamente…dove sono gli altri?
- Professore’, stanno scendendo.
- Va bene, intanto incominciamo.
Qualcuno mi porge un libro di testo e lo apre per indicarmi una pagina sottolineata
- Professore’, siamo arrivati qua con l’altra professoressa, l’Umanesimo e il Rinascimento e Martin Lutero.
- Va bene, allora riprendiamo da qui…o forse è meglio se ci presentiamo prima?
Intanto entrano altri alla spicciolata, buongiorno e mi porgono la mano, buongiorno e stavamo presentandoci, anzi no, stavamo presentando il programma, ma come preferite che vi chiami? Ci diamo del tu o del lei?
Insomma, basta, io ritorno sui miei binari consueti.
- Parliamo dell’Umanesimo e del Rinascimento, del ritorno alla centralità dell’uomo dopo i secoli bui del Medioevo. Avete presente l’uomo vitruviano di Leonardo? Si, quello che sta sulle monete da un euro. Ecco, l’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci ben esprime l’importanza accordata alla centralità dell’essere umano, alla sua bellezza e alle sue potenzialità. Il corpo umano, inscrivibile in un quadrato e un cerchio, figure geometriche perfette, diventa a sua volta emblema della perfetta misurazione. Dunque, la consapevolezza della propria perfezione, delle proprie risorse e delle proprie capacità, innesca un meccanismo creativo che investe tutte le arti e che è appunto chiamato “Rinascimento”. Sapete che significa “vitruviano”? chi era Vitruvio?
- Un poeta latino.
- Be’, non proprio un poeta. Era un architetto latino, che scrisse un’opera intitolata De Architectura, alla quale si rifece Leonardo. L’interesse per i classici è tipico dell’Umanesimo e proprio dalla riscoperta del mondo greco e latino muove quel fermento culturale che gli umanisti stessi nel XV secolo chiamavano Rinascenza……
Mi parlo addosso per qualche minuto, mentre mi guardo intorno. Alla mia sinistra, qualcuno, inforcati gli occhiali, con mio estremo compiacimento sembra prendere appunti. Osservo con più attenzione, avrà scritto sì e no due timidissime righe e sta ripassando lentamente alcune parole più sbiadite. Alla mia destra, qualcuno già stenta a tenere gli occhi aperti e a trattenere uno sbadiglio. Al centro, occhi che fissano un punto al di là delle mie spalle.
Non ci siamo proprio. Qui, le mie collaudate esperienze da professoressa di italiano, latino e greco al Liceo classico vanno a farsi fottere. Qui, lo sfoggio di erudizione è decisamente fuori luogo, non sortisce alcun effetto, o, al limite, darà come risultato un effetto contrario a quello che vorrei raggiungere.
- Forse è meglio se facciamo una chiacchierata per conoscerci, vero?
Le teste annuiscono all’unisono.
- Dunque, io, come voi, non sono di queste parti, vivo qui per lavoro, ma sono abruzzese.
- Abruzzese di dove?
Ecco, già cominciano a fioccare le domande.
- Di Lanciano.
- Lanciano?!?
Alla mia sinistra, quello che sembrava prendere diligentemente appunti ha già chiuso il quaderno, si è tolto gli occhiali e mi guarda sorridente, come felice di sentir nominare la mia città di origine.
- Sì, sono di Lanciano, la conosci? Ci sei stato a visitare il Miracolo Eucaristico?
- C’ho fatto il carcere nell’86 – è la risposta secca, schioccata da una bocca che continua a sorridere. La persona che mi guarda affabile in attesa di una risposta nel 1986 era già in carcere. Altro che uomo vitruviano sulla moneta da un euro, quella persona probabilmente l’euro non l’ ha mai maneggiato.
- Ahhh….. ma non il supercarcere a villa Stanazzo – cerco di non interrompere la conversazione con le mie riflessioni - quello lo hanno aperto dopo, se non ricordo male.
- No, io stavo al carcere vecchio, in centro.
- Ho capito, alle Torri Montanare. Io ci abitavo vicino.
E d’improvviso, mentre continuiamo a parlare, con la mente ritorno alla mia infanzia, quando abitavo a Lanciano, alle case popolari. Il 1986, avevo 11 anni.
Alla metà degli anni `80, nel quartiere dove vivevo, venne ad abitare una famiglia di rom, tristemente nota per il suo essere esclusivamente dedita al delinquere. Il pater familias (nel senso proprio del termine, dato che deteneva letteralmente lo ius vitae necisque su tutti i membri della famiglia) entrava e usciva continuamente di galera e lo stesso fanno adesso i suoi numerosi figli e i mariti delle sue altrettanto numerose figlie.
Il pigro vicinato, da un lato li odiava, ma da un altro si dilettava a spettegolare di continuo sulle arcinote avventure de li zinghere, un po’ per noia, un po’ per oscurare il ricordo degli scheletri che in molti, ormai giunti alla vecchiaia, si sforzavano di tenere ben chiusi negli armadi.
Così la Piuvilica che, da ex tenutaria di bordello, nonostante fosse ormai decadente nel fisico e decaduta nella professione, ancora conviveva con due relitti dei suoi passati amori e ciabattava tutto il giorno nel cortile condominiale ispezionando con affettato sdegno quello che le accadeva intorno, senza però dismettere le sue care abitudini di passeggiatrice. E quando la Piuvilica , pur conoscendo ogni minimo dettaglio delle improvvise sparizioni del padre, strascinando le ciabatte e le parole continuava a chiedere mielosa ai bambini
- Uaglio’, ma addo’ sta papà?
Agli zingarelli non restava che rispondere seccamente, con una punta di malcelato orgoglio
- Papà sta `n ’dalè
Il carcere di Santa Giovina si intravedeva dalla strada dietro gli edifici delle case popolari dove abitavo, un po’ coperto dalla mole del palazzone della Cassa Mutua. Era una bella costruzione inserita in quello che resta del complesso di fortificazioni noto con il nome di Torri Montanare, così chiamate perché rivolte verso il massiccio della Majella, la “montagna madre” degli abruzzesi.
Spesso, insieme agli altri bambini del quartiere, mi ritrovavo a scrutare le finestre del carcere, cercando di scorgere segnali di vita e di carpire i segreti di quelle esistenze che si svolgevano dietro le sbarre, così vicine eppure così lontane da noi.
All’improvviso, in un flash, mentre l’ alunno continua a parlarmi, davanti ai miei occhi scorrono vividi i ricordi di quei pomeriggi della mia infanzia trascorsi per strada a giocare, a correre, a scorrazzare in bicicletta. Con la curiosità e l’audacia acerbe ed eccitate, ogni volta inventavamo un gioco e una sfida diversi, tentando di allontanarci qualche isolato più in là dalle nostre case, spinti dalla vastità del panorama che si apriva a ovest, da dove il tramonto proiettava una luce arancione che si rifrangeva ed ampliava sui muri delle case popolari, anch’essi dipinti d’arancio.
Alle volte, stanchi di correre con le gambe, ma non con l’immaginazione, ci fermavamo a osservare il carcere, che con i suoi muri rigidamente squadrati e le finestre sbarrate faceva da contraltare alla morbida spazialità della Majella distesa sulle valli che conducevano al mare, lontano all’orizzonte.
- Chissà che fanno tutto il giorno là dentro – ci ripetevamo in continuazione.
- Io quando sarò grande ci voglio andare, io li voglio aiutare per farli tornare normali – era il proposito di molti.
- Ricopiona, l’ho detto prima io. Prima ci vado io, poi, se c’è posto, tu.
- Guardate che io c’ho mio zio che fa la guardia carceraria. Non è per niente bello, sono tutti delinquenti e zinghere, però lui si fa rispettare.
Tra mille infantili battibecchi, che ritornavano sempre sugli stessi interrogativi e sui medesimi antagonismi, salutavamo con le mani delle sagome buie che ci sembrava di scorgere dalle finestre sbarrate nell’atto di contraccambiare i nostri saluti.
- Uha’, ci stanno a rispondere!
- A me non mi pare, ve lo sta a fa’ gli occhi – qualcuno amava contraddire.
- Ma come no, non lo vedi che uno ha cacciato pure la mano fuori dalle sbarre – io ribattevo perchè li vedevo, o meglio, mi sforzavo di vederli.
Un nodo mi stringe alla gola, mentre mi costringo a tenere un discorso con la mia nuova classe e la mente ripensa ai giochi e alle schermaglie con i compagni della mia infanzia, di cui il ricordo ancora vivo preme per uscire a manifestarsi.
Sono passati più di venti anni e io, senza nemmeno capire esattamente come e perché, sono riuscita a mettere piede in quel luogo misterioso e segreto che tanto mi incuriosiva da bambina.
Come mi piacerebbe adesso catapultarmi indietro nel tempo, a quei pomeriggi arancioni come i tramonti e i muri delle case, a quando avevo 10 anni, per poter raggiungere i miei amichetti e gridare loro orgogliosa:
- Oh uagliò, ca’ ji `n galè ci so’ `rrivat pe ddavere!
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