26/12/11

Una questione di classe: la differenza

Gli utlimi strascichi del 2011 stanno portando con sé un ripetuto ri-affiorare di un'espressione che ci piace tanto e che da più di trent'anni si era pensato di poter cancellare dalla memoria collettiva, oltre che dalla lingua italiana. Mi riferisco alla differenza di classe, che, quando si fa insopportabile, sfocia nel conflitto e dunque nella lotta di classe.
Non che quest'ultima fosse stata abbandonata del tutto: in realtà, a partire dagli anni 80, la ridistribuzione del benessere dopo le lotte operaie degli anni 60/70, la concessione di diritti e di tutele come lo statuto dei lavoratori e la politica del panem et circenses, avevano indotto le masse a ritenere che ormai la lotta di classe non fosse più necessaria, che fosse soltanto un'anticaglia surpeflua e fuori moda, relitto di un passato ormai sempre più lontano a cui continuavano ad aggrapparsi uno sparuto gruppetto di nostalgici vetero-marxisti.
Per cui, mentre le masse riposavano tranquille,  addomesticate da quattro soldi in più nel portafoglio e dalla generosa copiosità di tettone che riempivano gli schermi, spacciate per una conquista del femminismo, i capitalisti s'appropiavano della lotta di classe dismessa dai lavoratori e dalle lavoratrici e si organizzavano per un lento e silenzioso contrattacco: quello che ci hanno sferrato mentre eravamo presi dall'organizzare le ferie d'agosto e intanto si dava il via alla stagione delle delocalizzazioni, delle collaborazioni coordinate e continuative, dei contratti a progetto, del lavoro interinale, misure, queste ultime, propagandate come tentativi di riforma del lavoro necessarie all'occupazione giovanile.
Il tracollo finanziario americano del 2008 ha inaugurato in occidente un'epoca di recessione economica che ha portato diversi nodi al pettine, intrecciatisi in Italia anche con una cosiddetta questione morale sollevata da un ventennio di berlusconismo. Mentre il governo Berlusconi agonizzava incapace di far finta di trovare misure alla crisi economica e al contempo dare risposte concrete alle necessità dell'Eurozona, quei settori che volevano disfarsi di una presenza inutile e incapace e sostituirsi a essa hanno creato un gran polverone massmediatico sui costumi sessuali del premier e delle sue ministre dalla dubbia moralità, costruendo una retorica dell'anti-zoccolismo, saldata a quella dell'antiberlusconismo, che è riuscita facilmente a incontrare il favore di quelle masse inebetite e appagate proprio da più di un ventennio di tetteculismo berlusconiano. In Italia, si sa, tira più un pelo di fica che un carro di buoi.
La retorica dell' anti-zoccolismo ha colpito nel segno ed è riuscita a trascinare in piazza il 13 febbraio 2011 più di un milione di donne al grido di Se non ora quando? per riportare al centro della discussione politica la condizione miserevole delle donne in questo nostro paese, che dopo i fasti del movimento femminista storico è scivolato agli ultimi posti nelle graduatorie degli studi di genere, come il Gender Gap Report.
Adesso che il carnevale berlusconiano è finito, adesso che la finanza, il vaticano e confindustria sono riusciti a prendere il timone di una nave che affonda, la questione femminile sembra non avere più la stessa importanza di un anno fa. Non per i media, almeno, ma in rete si muove da anni un attivismo vitale e originale che monitora la questione non solo femminile, ma anche LGBT e queer al di fuori della cassa di risonanza massmediatica, delle logiche di potere e delle ideologie di partito.
In questo mese successivo alla caduta del governo Berlusconi, si sono concentrati più fatti  a partire dai quali Loredana Lipperini, ha sollevato la questione della differenza di classe che divide le donne e che, a mio avviso, non interessa solo quella parte di società che appartiene al genere femminile.
L'11 dicembre c'è stata una chiamata in piazza del comitato SNOQ disertata dalle donne, un vero e proprio flop che ha dimostrato come quel movimento fosse solo una gran bolla di sapone gonfiata ad arte al solo scopo di creare dissenso attorno al governo Berlusconi. La questione femminile come cassa di risonanza per scopi altri, all'interno di lotte di potere tutte al maschile. Un film che abbiamo visto milioni di volte.
Poi ci sono state le lacrime della Fornero in conferenza stampa, mentre annunciava la deindicizzazione delle pensioni e chiedeva (agli altri e alle altre) un sacrificio. Su questo episodio si è scatenato un ampio dibattito in rete, tra chi, dimostrandosi ancorata a vecchi stereotipi di genere, difendeva quelle lacrime come segno di empatia tutta femminile e chi, come chi scrive, aveva il voltastomaco in ragione tanto della sua avversione a ogni stereotipìa quanto della  distanza fortissima e incolmabile tra la propria posizione, non solo ideologica, ma anche sociale, e quella della ministra. 
All'interno del dibattito aperto dalle lacrime della Fornero, Loredana Lipperini aveva rivolto un invito a riflettere sul ri-emergere di una differenza di classe che allontana dalle donne comuni sia la  ministra sia le attrici, cantanti, scrittrici e vallette del movimento SNOQ.
L'invito rivolto al comitato a occuparsi di pensioni e articolo 18 è stato reiterato in forma più esplicita e accalorata in concomitanza con un altro evento: la strage di senegalesi a Firenze e il contestato post delle compagne di femminismo a sud Chi ha sdoganato Casa Pound? 
Di fornte al preoccupante dilagare del neofascismo e all'operazione di cosmesi ideologica diffusa da testate come l'Espresso, il blog di femminismo a sud ha raccolto una serie di articoli e di nomi a partire dai quali è cominciato lo sdoganamento del neofascismo del terzo millennio, brodo di coltura della strage di Firenze e del pogrom di Torino. Il post ha messo in moto la macchina del fango contro femminismo a sud a opera di chi, come Alessandra di Pietro, si è ritrovata fra i nomi responsabili di tale restyling ideologico, in aiuto della quale sono accors* sodali come  Marina Terragni, la quale, guarda caso, aveva definito la Fornero in lacrime la ministra più bella del mondo.
Nel mezzo del dibattito pro/contro la liceità di pubblicare i nomi di chi ha scritto cosa, Loredana Lipperini ha constatato preoccupata che le donne sono arrivate a un vero e proprio punto di rottura, segnato e rimarcato proprio dalla differenza di classe.
Che si tratti di scendere in piazza, di confrontarsi su una manovra economica o di esprimersi sul neofascismo, le donne si dimostrano puntualmente divise: da un lato le donne comuni, precarie,  migranti, lesbiche,  transessuali, queer, insomma, soggette polimorfe che hanno a disposizione il web per rivendicare la propria esistenza e il diritto all'espressione di punti di vista ed esperienze di vita spesso marginali, ma non per questo minoritarie. Da un altro, le donne di spettacolo in senso lato, giornaliste, scrittrici, politiche, attrici, che annoverano se stesse tra le militanti di sinistra, di una sinistra radical chic che non disdegna di sposare le ragioni del capitalismo, del neoliberismo e,  perchè no?, anche del neofascismo e di manifestare non si capisce bene cosa a fianco di una Perina e di una Bongiorno.
C'è chi, come Loredana, esprime preoccupazione per questo punto di rottura. Io no, tutt'altro. L'emergere di una differenza di classe per me è di buon auspicio, perchè è dalla percezione di una differenza vissuta come conflittuale che può riprendere la lotta, una lotta che, ad oggi, rimane l'unica possibilità di difesa contro l'assalto neoliberista di politiche governative come quelle di Mario Monti. 
L'assopirsi della lotta di classe e del livello di guardia dei lavoratori e delle lavoratrici sono stati scientemente ottenuti attraverso il livellamento delle differenze. L'omologazione culturale e ideologica condotte a fianco dell'appiattimento su un livello medio di benessere, sono state perseguite proprio dai capitalisti, che sarebbe il caso di ricominciare a chiamare padroni, al fine di addormentare le masse e lentamente erodere quei diritti che i lavoratori e le lavoratrici avevano conquistato con la lotta.
Che ad oggi si cominci a risentire la differenza di classe è, a mio avviso, un dato positivo: significa che ci stiamo svegliando dal torpore e dall'illusione di non avere più bisogno di fare lotta di classe perchè tanto si sa, stanno tutti bene.
Che poi si ricominci a nominare la differenza di classe nelle discussioni e nei blog femministi, non può che farmi estremamente piacere, perchè da un lato è la conferma del fatto che il femminismo non si muove a latere della società, che non è rappresentativo di una fetta della popolazione, ma interessa le dinamiche di una collettività nella sua interezza. 
Per un altro verso, il fatto che noi femministe abbiamo ricomiciato a parlare di differenza di classe è la riprova che le donne, quelle comuni, soffrono di un disagio sociale più acuto degli uomini e che, proprio per questo, lo percepiscono e lo denunciano prima, anche se poca o nulla è l'attenzione accordata a tale denuncia.
Il problema è che si rimane troppo spesso a parlare e scrivere tra noi, fino a quando i fenomeni superano la soglia di allarme, diventano per forza di cose di dominio pubblico e allora smarriscono la loro maternità, assumendo una coloritura neutra che cancella le specificità e le differenze, riportando tutto all'omologazione che appiattisce, che appiana, che getta cenere sul fuoco, vanificando, come abbiamo già constatato, ogni tentativo in direzione di un cambiamento realmente incisivo, ogni speranza di evoluzione. Ma è davvero di un livellamento funzionale alla rimozione del conflitto che abbiamo proprio tanto bisogno adesso?

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