03/08/11

L'armata dei fiumi perduti di Carlo Sgorlon

Il 25 dicembre 2009, all’età di 79 anni, si è spento a Udine Carlo Sgorlon, uno degli autori più prolifici e al tempo stesso meno conosciuti di questo nostro strambo paese, in cui, troppo spesso, il prestigio e la notorietà sono inversamente proporzionali al valore e ai meriti.
Carlo Sgorlon si è spento il giorno di Natale, il giorno in cui la tradizione cattolica, alla quale era tenacemente legato, ha fissato la data di nascita di Gesù Cristo, ma i media erano troppo occupati da pranzi luculliani, regali dai colori sgargianti e bollettini meteo per dedicare un seppur minimo spazio alla scomparsa di uno degli intellettuali che si adoperarono per portare all’attenzione pubblica la rimossa tragedia delle foibe.
Proprio il giorno in cui l’autore moriva, quella stessa fatalità che egli concepiva come sovrana indiscussa delle vicende umane, mi ha messo tra le mani L’Armata dei fiumi perduti, forse il capolavoro di Sgorlon, il romanzo che gli è valso nel 1985 il premio Strega, in cui viene narrato un episodio poco conosciuto della seconda guerra mondiale, l’arrivo e la temporanea permanenza in Friuli dei Cosacchi in fuga dalla Russia bolscevica.
Romanzo “misto di storia e di invenzione”, L’armata dei fiumi perduti si fonda sui ricordi d’infanzia di Sgorlon, il quale narra delle vicende dei raminghi Cosacchi come emblema della distruzione e della disperazione in cui le atrocità della guerra travolgono i destini incrociati di ebrei, zingari, friulani, circassi, kazaki e partizany.
Così, travolto dalla cieca volontà del destino, il qazaq da nomade, libero, indomito, si trasforma in un esule a cui la dura Necessità della Storia ha sottratto la possibilità di avere una terra in cui ritornare. Ed è la stessa forza cieca della fatalità che, nel caos rovinoso prodotto dalla brutalità della guerra, cancella le differenze tra invasori e invasi, tra vincitori e vinti, facendo sì che le bábuške cosacche e le vecchie friulane si ritrovino in piazza a lamentare la stessa sofferenza, scoprendo nel dolore la comune appartenenza al genere umano.
Sullo sfondo, una natura incantata, la terra madre di Sgorlon, un Friuli ancestrale, mitico, evocato con immagini suggestive che sconfinano nel realismo magico: ecco allora le montagne indossare lo spolverino bianco delle prime nevicate e il tramonto tingere di rosso le spalle delle montagne. Una Natura personificata accompagna, dunque, le vicende umane e ammonisce con funesti presagi a fermare il dilagare della brutalità a causa della quale l’uomo, nascondendosi dietro il paravento di un vano onore da difendere, in realtà regredisce ad una condizione ferina.
Aleggia su tutto il racconto la melancolìa di un sentimento antieroico, che, oltre a esprimere il ripudio della guerra e di ogni pseudo-ideale che la giustifichi, afferma come valore supremo quello della vita, perché le guerre ritornavano in eterno, creando perpetuamente profughi e nomadi che spingevano un carretto pieno di masserizie, in questo o in quel luogo, per le strade polverose della terra. E in questo continuo peregrinare, in questa vana odissea di esuli senza patria e tempo, che stentano a ritrovare la propria identità, Sgorlon aveva individuato la tragedia degli uomini moderni che forse erano degli esuli, dei profughi, dei senzapatria, al di là delle vicende della guerra. Era la loro stessa anima che non aveva più un luogo familiare e ben conosciuto, né certezze, né dimensioni consolatorie, ed essi non sapevano più dove rifugiarsi e dove aggrapparsi.  In tale vuoto provocato dall’assenza di certezze e di valori in cui rifugiarsi e ritrovare una identità, Sgorlon vedeva pericolosamente insinuarsi il materialismo e il consumismo fomentati da quell’industrializzazione sfrenata che contaminava il suo amato Nordest. Quello stesso consumismo che ha trionfato sui media un giorno di Natale come gli altri, oscurando con la sua volgarità la triste scomparsa di un grande scrittore.

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