Opera prima scritta in cinese da un tibetano che vive e lavora in Cina, Rossi fiori del Tibet di Alai è un potente affresco della società tibetana oramai in declino nei primi anni del Novecento, alla vigilia dell’invasione delle truppe di Mao Zedong.
Le vicissitudini della potente famiglia latifondista dei Maichi, che costituiscono l’asse portante del racconto, assurgono a paradigma di un mondo solo all’apparenza semplice, destinato a soccombere sotto il peso del suo stesso immobilismo. La vicenda è narrata in prima persona dal figlio più giovane del capo Maichi, considerato da tutti un idiota forse perché osserva il mondo che lo circonda da una prospettiva diversa dagli altri, troppo presi dalla concretezza del vivere per poter cogliere i presagi che li sfiorano.
Il romanzo si inscrive a ragione nel genere del realismo magico: pagina dopo pagina, sotto gli occhi del lettore, prende forma la rappresentazione di una società latifondista ossessionata dalla brama di ricchezza e di potere di pochi capi che si fanno guerra, una società chiusa e statica dove cominciano a fare tacitamente ingresso i cinesi Han. Su questo scenario aleggia un’atmosfera per così dire magica, dipinta con un forte cromatismo su cui spicca il colore rosso, il colore del sangue, del fuoco, dell’amore e della morte. Rossi sono i fiori del papavero da oppio, che infiammano il paesaggio e gli animi dei protagonisti e proprio l’oppio, il fiore dell’oblìo, si rivelerà un’arma a doppio taglio nelle mani di una famiglia destinata a non tramandare memoria di sé.
L’antica società tibetana è dunque colta nel groviglio delle contraddizioni che hanno contribuito alla sua rovina, rendendola miope e incapace di agire di fronte alle prime luci di un tramonto cui è seguita la notte dell’invasione cinese.
Non c’è amarezza nel romanzo di Alai, ma una sorta di dolce melancolìa che scaturisce dal racconto dell’io-narrante proprio come il liquido lattiginoso fuoriesce dallo stelo di un papavero spezzato. Il tono non è polemico o aspro, ma ovattato come i rumori del mondo esterno che invadono la stanza della padrona intenta a fumare oppio con la sua pipa d’argento, mentre fuori il suo mondo si sgretola.
Nel romanzo non trovano spazio nemmeno le patinate idealizzazioni da copertina di gran parte degli amanti del Tibet, che spesso enfatizzano la forte spiritualità di questo popolo e lo privano di una dimensione storica, limitandolo in una atemporalità che restituisce una fotografia solo parziale dell’universo tibetano.
Un romanzo che si segnala non solo per l’incanto della narrazione, ma anche per la maestria dell’autore nel disegnare un’immagine del suo popolo lontana da ogni stereotipo e non costretta nei limiti schematici della ormai tristemente nota opposizione Tibet-Cina. Proprio la sua capacità di non cadere vittima della tentazione di fare di un romanzo un atto di accusa contro il governo centrale, ha fatto sì che Rossi fiori del Tibet sia stato insignito nel 2000 del premio Mao Dun, il principale riconoscimento letterario cinese.
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